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Tutti in paranoia per Immuni, e poi regaliamo i dati a FaceApp

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L’impazzimento per FaceApp è ripartito. Celebrità che si cambiano di genere, da maschio a femmina e viceversa e social network invasi da ondate di (bruttissime) foto. Mentre nella prima ondata era andato forte l’invecchiamento. Ma come, non erano tutti preoccupatissimi per Immuni, l’app per il contact tracing per il coronavirus? E adesso scaricano di nuovo la famigerata app russa, sviluppata dalla Wireless Lab di San Pietroburgo fondata e diretta da un ex manager di Yandex, la Google locale? 

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Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che sul web “pasti gratis non esistono” e che al fenomeno virale (anche se non dovremmo più usare questa parola) si lega la cessione di immagini e in generale dati sensibili (ce n’è uno più sensibile di un nostro ritratto?) per la privacy di cui ignoriamo sostanzialmente la sorte. Magari non ce ne frega nulla, magari sì, ma la questione di fondo rimane: cediamo volentieri foto e informazioni, metadati e immagini a un gruppo russo ma alla soluzione decentralizzata per proteggerci dall’epidemia spacchiamo il capello in quattro.

Questioni diverse, si dirà. Vero: il primo è un giochino per quanto raffinato e per molti divertente, basato sui deepfake generati dall’intelligenza artificiale, il secondo rischia di costringerci all’isolamento se ci arriva l’infausta notifica (che sarebbe un obbligo civico, in tempi come questi) e ci lega all’attesa, forse lunga, di un tampone. Bene (anzi, malissimo) ma volendo anche lasciare da parte questo confronto, come si spiega la nostra memoria cortissima su questi argomenti, questo continuo ritmo sincopato con cui periodicamente caschiamo nell’app a dir poco “paludosa”, ce ne tiriamo indietro rapidamente e poi ci ricaschiamo dopo qualche mese, alla prima feature (forse) spassosa? 

FaceApp non forniva informazioni specifiche su quale sorte toccasse alle foto degli utenti. Aveva dato generiche rassicurazioni della serie “non condividiamo i dati con terze parti“ e “non li trasferiamo in Russia”, assicurandone la cancellazione entro 48 ore. Adesso, almeno, queste rassicurazioni sono state messe nero su bianco nella policy relativa alla privacy. Vi si certifica infatti che le immagini saranno usate appunto solo per fornire il servizio, saranno eliminate in due giorni e c’è una sezione dell’informativa dedicata agli utenti europei, che così possono richiederne la cancellazione anche prima delle 48 ore.

La quasi certezza tuttavia è che nessuno abbia ripreso a usare FaceApp perché rassicurato dalle nuove policy sulla riservatezza. Sfido chiunque a sostenere di essersi sottoposto all’immancabile scambio di genere che sta avvelenando Instagram e Facebook perché al corrente di questo aggiornamento. Semplicemente, il trenino è ripartito e di nuovo, in un domino del passatempo online trainato da influencer e vip ma anche dalla zia simpatica, ci siamo precipitati di nuovo a scaricarla o riaprirla. Come di nuovo precipiteremo in qualche soluzione del genere fra qualche mese o settimana. Le preoccupazioni per la privacy sembrano sfoggiare due facce: se giustamente sottolineiamo rischi e limiti di tutto ciò che ruota intorno a operazioni gestite dallo Stato, siamo in fondo infinitamente più clementi con i gruppi privati, grandi o piccoli. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, dopo i disastri di Cambridge Analytica o gli infiniti leak di dati e profili, 2,5 miliardi di utenti passino ancora il proprio tempo sulla creatura-madre di Menlo Park. Questo ha un senso: i governi potrebbero approfittarne per costruire sistemi pervasivi di controllo sulle nostre libertà, ad app e piattaforme invece crediamo di cedere un po’ di dati, di cui ci dimentichiamo quasi subito, in cambio di un servizio, utile o divertente che sia. Nonostante un certo miglioramento nel dibattito su questi argomenti, non riusciamo però a capire che anche quei gruppi ci controllano (o almeno possono controllarci). Solo in un altro modo: indirizzano i nostri gusti, le nostre scelte d’acquisto, le nostre preferenze elettorali e il nostro immaginario, come dimostra una ricerca appena pubblicata da AlgorithmWatch e dall’European Data Journalism Network che ha svelato come l’algoritmo di Instagram favorisca immagini seminude, proponendole oltre modo nelle bacheche degli utenti. E se non lo fanno, o anche mentre lo fanno, nella migliore delle ipotesi di quei dati commerciano in modi e su canali sui quali non abbiamo alcun controllo, appena moderati dal Gdpr europeo entrato in vigore nel 2017. Bene dunque usare FaceApp, se lo vogliamo, ma evitiamo poi di improvvisarci giuristi esperti di riservatezza in altre, ben più importanti, situazioni.

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